martedì 29 settembre 2015

Il “Principe” ed i tagliagole

I conflitti odierni tra ragioni geostrategiche e crisi di identità
di Maurizio Zandri

Libia, Siria, Iraq, Yemen, Libano, Egitto, Sudan, Nigeria, Ucraina, Afghanistan…sto dimenticando qualcosa in questo elenco di luoghi di conflitto…. Forse per dare un quadro ancora più sconfortante dovremmo ricordarci anche di alcuni binomi: Israele-Palestina; Iran-Arabia Saudita; Israele-Iran; Turchia-Kurdi; India-Pakistan; Corea del Nord e del Sud… e chissà quanti altri, magari meno noti.

La novità, rispetto al secolo scorso è che noi Europei, anzi noi del cosiddetto “mondo occidentale” non siamo segnalati in nessuna mappa del conflitto. Per noi è un bene, certo, anche se nel mondo globalizzato dovremmo essere coscienti di almeno un paio di cose: a) le vicende dei vicini ci riguardano direttamente, concretamente; b)nessuno può credere che i nostri interessi non influiscano fortemente in questa sorta di “guerra mondiale a pezzi”. Qualche volta sembrerebbe, anzi, che ne siamo i protagonisti, anche se per interposta “nazione”. Siamo abituati, per questo, a complesse analisi geo-strategiche che ci raccontino non solo le forze in campo, ma le alleanze e gli intrecci di interesse che le determinano. Cresce il gusto della “scenaristica”. Aumentano gli sforzi per cimentarsi nell’arte (sul termine “scienza” sorvolerei) della previsione.

Nell’analizzare i conflitti dovremmo però, forse, evitare di pensare solo nei termini di “ragioni vere” e “aspetti secondari”. Le analisi geostrategiche ci conducono spesso nel mondo affascinante dei motivi profondi e, qualche volta inconfessabili, che conducono al conflitto o che ne frenano la mitigazione. Articolate e convincenti analisi ci spiegano che sono gli interessi strategici, di carattere essenzialmente economico, di protagonisti a volte occulti, che guidano gli avvenimenti. Ci portiamo, volenti o nolenti, addosso la divisione marxiana tra struttura (l’economia, il profitto) e sovrastruttura (la cultura, le identità…) in cui la prima condiziona, determina sempre la seconda.

Ora, che la Guerra di Troia, se c’è stata, non fosse motivata dalle natiche di Elena, è assai probabile. Che Menelao, già lui, puntasse al controllo totale dei traffici con il Medio-Oriente ce lo racconta ormai anche Brad Pitt.

Ma i diecimila combattenti delle tribù greche perché erano lì? Passiamo alla Storia: che le crociate non si siano iniziate per recuperare il legno della croce di Cristo è fatto condiviso dalla stragrande maggioranza degli storici. Ma cosa portava migliaia di contadini, cavalieri, fabbri, avventurieri in armi dall’Europa sotto le porte di Gerusalemme?

Che l’Isis sia  il frutto di una sciagurata operazione da laboratorio di ambienti anti-iraniani è molto più di un sospetto. Ma che pensano coloro che partono dai caseggiati delle periferie urbane, dalle Università, talvolta, di mezza Europa per associarsi al Califfo e iniziare a tagliare gole, crocefiggere, stuprare, squartare, bruciare vivi arabi come loro? Perché lo fanno? Qual è la loro “realtà” la loro “ragione vera” del conflitto?

Spesso l’analisi di questo aspetto è più trascurata, sembra meno “decisiva”, meno degna di convegni? Perché?

Perché se riusciamo ad individuare le ragioni strategiche, “razionali”, e convinciamo i portatori dei grandi interessi a tirare indietro la mano, avremo eliminato “l’erogazione del carburante” che fa procedere il conflitto. Può essere una buona risposta. Il problema è che è una parte, solo una parte della risposta oggi necessaria.

“Ambienti” francesi e belgi fermarono (o rallentarono…) ogni loro aiuto agli Hutu quando colsero l’isolamento internazionale a cui si stavano votando per l’eccidio di Tutsi in Ruanda. Questo non bloccò lo squartamento di 10.000 Tutsi al giorno per 90 giorni, che finì solo quando la reazione Tutsi dai confini ebbe la meglio restituendo quasi per intero la pariglia… (e del resto negli anni 60, in Burundi, gli Hutu non furono massacrati di meno…)

L’Arabia Saudita, che come è noto conosce come unica vera strategia interna e internazionale la salvaguardia del potere dei Saud, di fronte al fondamentalismo della setta dei “Fratelli” già temuta negli anni 70 e rinverdito oggi da Al Baghdadi, che ne mette in discussione purezza, onestà e fedeltà al Corano, s’inquieta e teme di aver spinto troppo oltre il suo sostegno alle orde del Califfato. L’Occidente che conta ha lo stesso timore e, adesso che ha firmato l’accordo sul nucleare iraniano, toglie il piede dal pedale destro e inizia a premere quello centrale. Per questo molti analisti si sono spinti a prevedere la fine dell’Isis. Intanto, però le donne Yazide continuano ad essere in schiavitù, i jihadisti appena un poco più ragionevoli a essere messi in croce; Palmira è minata, l’Iraq, “liberato” da Bush, è occupato per metà e la Libia “liberata” da inglesi e francesi, in guerra. Ancora per quanto? Diversi mesi, sostengono i più ottimisti. Un paio d’anni i realisti.

Cosa fa continuare il conflitto anche quando gli interessi “veri” si stanno ritirando? E’ solo l’inerzia di qualsiasi processo o c’è dell’altro “carburante” di cui poco ci curiamo e su cui poco, conseguentemente, operiamo? C’è qualche altra “verità”? I tempi dei “decisori” e i tempi degli esecutori, di più: i temi dei decisori e quelli degli esecutori non sempre coincidono. Ma la verità di coloro che non comandano non è minore verità.

La Caritas Internationalis, in un suo splendido manuale per formatori ed operatori sul tema dei conflitti, ci avverte che il conflitto è come un incendio, ha varie fasi: quella dell’accatastamento della legna che vuol dire l’accumularsi dei problemi. Quella del cerino acceso vicino alla legna, che vuol dire la soggettiva volontà di far precipitare la situazione; l’incendio, quindi, durante il quale, essi avvertono, è del tutto inutile cercare di far ragionare le parti: contano solo i pompieri o, fuori della similitudine, l’intervento armato dall’esterno. Poi il fuoco principale si spegne. Si sparge la brace. E’ la fase di gran lunga più complessa e pericolosa nella gestione di un conflitto. L’incendio può divampare di nuovo in breve tempo. Se tutto funziona, inizia la fase della rifioritura. Ma perché la foresta della concordia e della vera pace rinasca davvero “i tempi sono quelli di una generazione”.

Quello che rende così complessa la ricomposizione dei conflitti è, a ben vedere, il vasto intreccio di diverse “verità” che accompagnano la sua nascita. Chi partecipa al conflitto vive una esperienza profonda e terribile, tanto più sconvolgente quanto più coinvolgente. Per i decisori, per i portatori di macro-interessi il raggiungimento dello scopo (o la manifesta impossibilità di raggiungerlo), per quanto rilevante (il possesso di fonti d’acqua, la conquista di una porzione strategica di territorio, l’accesso al petrolio o al mare….) è sufficiente ad interrompere il conflitto. Per chi si è mobilitato sul terreno l’inerzia è diversa. Al centro della propria attenzione c’è la rivendicazione/difesa di qualcosa di parallelo a quanto i propri “governanti” agognano. Qualcosa su cui la stessa loro propaganda ha lavorato per suscitare l’odio, l’aggressività necessari a combattere e che diviene la “verità” della gente in lotta/guerra. La “loro” ragione profonda. Che cos’è?

Molta stampa ci parla di guerre di religione. La componente delle diverse appartenenze religiose nelle divisioni che oggi caratterizzano molti conflitti è indubbia. Ma il termine è tecnicamente corretto? Guerre alimentate/causate dalla religione? Si vuole imporre la propria visione dottrinale all’avversario? Si combatte aspramente per l’affermazione della corretta discendenza dal Profeta? O la religione è una componente di qualcosa di un po’ più “largo”, comprensivo?

Guerre “etniche” è un’altra delle definizioni che va per la maggiore. L’”etnia” è per Weber la “credenza di comuni origini”; per molti antropologi di cultura americana si tratta di un dato oggettivo legato a ”razza, religione, origine nazionale”; per un buon Dizionario della lingua italiana di ”un raggruppamento umano fondato su comuni caratteri morfologici, culturali e linguistici”. Non mancano, infine, i parallelismi con il concetto di “nazione”. Qualsiasi definizione scegliessimo, verrebbe da dire che le differenze di appartenenza etnica siano, in effetti, un’altra verità incontrovertibile che caratterizza molte comunità in conflitto. Esse, sembrerebbero poterci anzi offrire un contenitore interpretativo un po’ più comodo, “largo” delle differenze religiose (che semmai potremmo considerare all’interno dell’ ”etnos”). Ma tali distinzioni “oggettive” o “percepite” non sono di per se’ condizioni sufficienti per una guerra. La presenza di più etnie (come di più religioni…) in uno stesso territorio non sempre rappresenta un accatastamento di legna pronto a far divampare il fuoco dell’incendio. Secoli di scambi, coesistenza, matrimoni misti in molti Paesi (in molti Stati nazionali), stanno a testimoniarlo. E oggi gli Stati Uniti sono uno Stato interetnico. La Svizzera, il Belgio lo sono.  

Quand’è allora che le differenze, siano esse etniche o religiose, fanno da moltiplicatore delle cause “razionali” di un conflitto?

Provo a suggerire una linea di ricerca della risposta basata  su due condizioni abbastanza banali perché note e storicamente permanenti, cionondimeno assai attuali; una è “economica”, l’altra diremmo “culturale”: queste due condizioni sono a)la povertà e b) l’identità.
      A)      Le differenze divengono fattore di scontro quando le risorse sono scarse e si rischia di dover sgomitare per averne. E’ il momento in cui ci si allea con i più vicini, di nazionalità, di razza, di religione o di appartenenza tribale, contro l’altro, il “diverso”, di cui si percepisce la volontà di approvvigionarsi dal nostro stesso “grande magazzino”. Il rischio della povertà e l’abbrutimento della fame portano, anzi, velocemente ad assottigliare anche queste alleanze. La fame vera e propria porta tutti contro tutti: è una lotta individuale!
    
      B)      Le differenze divengono fattore di scontro, inoltre, quando si percepisce la propria identità (ancora una volta indifferentemente nazionale, etnica, tribale, famigliare, religiosa….) come minacciata. Aspettative tradite, cultura non rispettata, ruoli di potere o di lavoro insidiati. In una parola quando vince la “paura” che il “diverso” (o ancor più semplicemente, e terribilmente, “l’altro”) possa minacciare il proprio status o i privilegi (non importa se miserabili) acquisiti. Quello che poi accade in connessione alla condizione di maggioranza e minoranza delle  varie comunità meriterebbe un approfondimento a parte, senza però che le conclusioni possano, mi sembra, alterare il significato di quanto si andava dicendo.

Provo a riassumere quanto sto cercando di dire: ci sono spesso differenze di religione o religiose tra parti in conflitto e le parti che si combattono hanno ancora più spesso sentimenti di appartenenza etnico-nazionale affatto diversi. Queste differenze , di per sé, non sono condizioni sufficienti di conflitto. Su queste differenze si innestano le cause “strategiche” dei conflitti. Quelle del “Principe”. Su queste differenze, anzi, egli fa’ leva per suscitare mobilitazione e adesione allo scontro. Ma anche questa azione avrebbe scarsa possibilità di successo se contemporaneamente non sussistesse almeno una delle due seguenti condizioni: a) uno stato di povertà, di grave crisi economica, di scarsità di risorse che minaccia la condizioni di vita della popolazione nelle sue varie parti/comunità; b) una minaccia portata alla identità, al ruolo di una comunità (maggioritaria o minoritaria), tale da far sospettare il rischio di essere marginalizzati, sostituiti, inquinati nella propria pretesa “purezza” nazionale, etnica, religiosa  o razziale.

Non c’è dubbio che ci siano delle gerarchie in questo groviglio di “verità”. Ma sospetto che siano “variabili”. Non mi sentirei cioè di affermare che c’è sempre lo stesso “prima” e lo stesso “dopo”. Sempre lo stesso rango di cause che influenzano le loro inevitabili sotto-cause… Durante il conflitto, nello scontro, le varie “ragioni” si intrecciano. Divengono spesso indistinguibili. Se è essenziale poter operare a livello di grandi scelte strategiche minimizzando le ragioni “razionali” del conflitto (compito che spetta spesso ai grandi interessi, agli Stati, al Consiglio di Sicurezza dell’ONU), non lo è meno operare a livello locale sulle altre ragioni che sono venute crescendo e intrecciandosi, aggrovigliate, intorno a risentimenti etnici, religiosi, nazionalistici, sempre in uno scenario di crisi economica e/o nel quale qualcuno sente a rischio la sopravvivenza almeno del proprio ruolo se non della propria esistenza.

Dobbiamo abituarci, insomma, ad analisi olografiche in cui molti fattori condizionanti la realtà si influenzano reciprocamente in un complesso sistema di sovrapposizioni, in un cambio repentino di cause ed effetti. La intricata matassa della realtà sociale e  politica non si dipana, forse, partendo da un solo filo.

(Ed è soprattutto questa la ragione per cui nei nostri Master, nei nostri Corsi di Laurea si spinge molto sulla “interdisciplinarietà” . Non si tratta di far lavorare più professori e di rispettare un metodo didattico astratto. E’ l’unica condizione per tentare di avvicinare (anche se quasi mai raggiungere del tutto…) una lettura corretta della complessità del reale.)

Qualche conseguenza operativa

Se queste considerazioni si avvicinassero almeno un po’ alla realtà ne conseguirebbero alcune indicazioni di comportamento politico e sociale di un qualche interesse.

La prima è risaputa e scontata: le politiche di cooperazione sono costruttrici di pace. Lo sviluppo, cioè,  assorbe uno degli acquitrini in cui prolifera il conflitto. Ridà fiducia, restituisce protagonismi insieme all’esercizio della partecipazione. In senso più amplio, di fronte alle crisi moderne che causano milioni di profughi che creano paure e destabilizzano l’Occidente, la cooperazione allo sviluppo è (sarebbe…) una formidabile azione di loro politica interna.

La seconda mi sembra assai meno scontata. Quasi difficile da riferire. Eppure la provocazione sembra necessaria. La valorizzazione delle identità è sempre fattore positivo? Ci viene naturale essere pronti a difenderla. E’ una battaglia che in Occidente sentiamo profondamente democratica. L’identità dei Kurdi, per esempio. E dei tibetani, delle tribù dell’Amazzonia a rischio di scomparsa, ma anche delle minoranze religiose, linguistiche, etniche in ogni Paese.
Non basta. Sull’identità, il suo valore, si basa molta parte delle teorie di sviluppo economico locale. Gli stessi Fondi Comunitari Europei invitano con forza a valorizzare le identità locali per suscitarne il protagonismo e la partecipazione, innestando processi virtuosi di competitività dei sistemi locali stessi.  

Sembrerebbe che il rispetto, la difesa e la valorizzazione delle identità rappresentino un gradino irrinunciabile della scala che sale in un ipotetico “paradiso” del “politically correct”.

Ma c’è un “però” che le esperienze recenti ci vanno dicendo, ed è che lo stesso gradino serve a scendere verso l’inferno. Dipende dal verso in cui si prende la scala.

Qualche domanda retorica per ricordare cose largamente risapute.

Cosa se non l’esasperazione della ricerca di “identità” porta al nazionalismo? Vogliamo ricordare che le radici dell’Europa moderna risiedono nel ripudio dei nazionalismi così fortemente richiesto da Altiero Spinelli ed Ernesto Rossi nel Manifesto di Ventotene, mentre si stava consumando l’ultima parte della tragedia dei nazionalismi che portarono della seconda Guerra Mondiale?

Non c’è la spasmodica ricerca di “purezza”, corretta identità, affermazione della “vera” verità nei totalitarismi del “secolo breve”?

Virando verso l’analisi sociologica: cosa è alla base delle dinamiche di branco nelle periferie degradate e nelle curve degli stadi, se non la spasmodica “necessità” di riconoscersi di assumere un ruolo per poi “dividersi” dagli “altri”?

E arrivando alle nostre cose: il cuore della propaganda dell’Isis (come di tutti i fondamentalismi, del resto) non è forse il sostenere che solo sotto i suoi simboli si può essere “considerati” buoni mussulmani. Che l’identità islamica vera è quella propugnata dal Califfo?

Lasciando stare  per un momento le “verità” geostrategiche e assumendo quelle dei “combattenti” dello Stato islamico, la necessità di avere vendicata la propria identità calpestata dalla cultura occidentale non è forse alla base delle adesioni numerose dei “foreign fighters” come “Jihadi John”?

E cosa pensare dell’abuso strumentale dei sentimenti di identità russofona nella crisi Ucraina?

Si potrebbe continuare e scoprire che la Storia e la cronaca ci regalano un gran numero di vicende in cui la ricerca dell’”identità” rappresenta un fattore di crisi.
Ovviamente, non potendo rinunciare nessuno di noi a qualcosa in cui credere, ad un gruppo in cui riconoscerci, ad un Paese da amare come il proprio, alla forza di una idea comune, etc. non staremo a suggerire la distruzione del sentimento di “identità”. Ma la cautela potremmo suggerirla.
Soprattutto potremmo in positivo valorizzare qualcosa che funzioni da anticorpo di una deviazione parossistica del sentimento di identità. Potremmo lavorare a favorire la “contaminazione” delle razze e delle culture (anzi io oggi vorrei fare l’”elegia” della contaminazione!); a promuovere la permeabilità delle nazioni (e dei confini); a rilanciare l’universalismo della difesa dei diritti umani.

La vicenda drammatica dei rifugiati che arrivano indesiderati nei nostri ordinati giardini europei, ci sta ponendo di fronte ad un clamoroso paradosso. La pretesa difesa della nostra identità è l’arma “finale” usata con sempre maggiore successo da numerosi movimenti anti immigrati e/o apertamente xenofobi. Ma più cresce l’opposizione all’accoglienza e più viene meno una parte essenziale proprio della nostra identità e cultura. Perché la nostra identità è caratterizzata dal rispetto dei diritti dell’uomo, siamo liberali, e siamo Cristiani. O no?


Dal modo in cui affronteremo e scioglieremo questa “crisi di identità” collettiva dipenderà molto delle possibilità di mitigazione delle gravi crisi internazionali in corso. Più che dalle decisioni di un futuro G8.

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