venerdì 6 marzo 2015

Isis: perché dobbiamo fare qualcosa subito

La cautela con cui i Governi occidentali hanno assunto (o stiano ancora assumendo) decisioni su cosa fare contro l’Isis è ambigua. Sono servite molte settimane e molti morti prima che si desse una mano ai Curdi del Rojava a Kobane assediata; gli Yazidi hanno avuto minor fortuna e molti sono tuttora schiavi. In Siria ed in Iraq, mesi di cosciente “disattenzione” hanno determinato non solo la perdita di territori vasti, ma anche di pozzi petroliferi e grandi città, oltre alla distruzione feroce di vite umane e di pezzi di storia dell’umanità.
Non ho alcuna nostalgia della retorica dei muscoli, ma provo una certa meraviglia, forse ingenua, per la differenza riscontrabile con la rapidità delle decisioni invece assunte contro i  Talebani, Saddam o Gheddafi, dove, al contrario, aver quantomeno riflettuto un po’ di più sulle conseguenze del dopo bombardamenti non avrebbe guastato.
Eppure, agire contro lo “Stato Islamico” non pone di fronte alla responsabilità del rivoluzionamento di un assetto istituzionale stabilizzato. Non si tratterebbe di predisporre, prima, le condizioni della “governance” del dopo. Basterebbe accontentarsi, per ora, del ritorno al “prima” della proclamazione del “califfato”.
La brutalità delle azioni, la folle violenza e la totale assenza di un linguaggio etico-morale comprensibile dalla stragrande maggioranza dei popoli del Pianeta, fanno, anzi dell’Isis il paradigma perfetto del “nemico cattivo”. Il soggetto ideale per l’applicazione delle teorie della “guerra giusta”. E allora?
L’amarezza, il disincanto, la drammatica accusa del padre del pilota giordano bruciato in gabbia per fare da soggetto alle strategie comunicative di Al Baghdadi,  deve farci riflettere: “ non ho alcuna speranza che chi ha finanziato l’Isis ci aiuti ora a punirlo…” .
Non bisogna essere necessariamente cinici analisti di strategie internazionali per sapere che la crescita dell’Isis è stata consentita dalla tentazione di molti di creare instabilità nel fronte iraniano, in un braccio di ferro niente affatto religioso ma dovuto alla ricerca di ruoli crescenti di potere tra nazioni. Con diverse strategie intermedie, forse, ma Arabia Saudita, Emirati, Turchia, Stati Uniti e altri alleati condividono questa responsabilità. La Siria di Assad e soprattutto l’Iraq sciita,  mettendoci del loro, con le politiche settarie, dementi perseguite, ne stanno facendo le spese.
Ma fino a che punto si pensa di poter spingere il gioco? Lenin tornò in Russia con i soldi e grazie all’appoggio di alcuni Governi occidentali che speravano di dar fastidio allo Zar e, destabilizzandolo, di favorire le proprie strategie di potenza. Come sia finito è noto. Come è noto che i piccoli gruppi coesi, fortemente motivati, convinti di possedere la “verità” non vadano mai sottovalutati, perché sono una specie di imbuto che attrae tutte le gocce confuse di settori frustrati di popolazione. Anche le prime esperienze organizzative di Hitler erano dimensionalmente ridicole di fronte alla forza elettorale dei Socialdemocratici tedeschi. Come del resto lo erano state quelle di Mussolini in Italia. E in entrambi i casi c’era qualche “abile stratega” che pensava di poter sfruttare per i propri fini le conseguenze delle loro azioni violente.
Allora qualcosa va fatto e in fretta. Come e da chi? Proviamo a ragionare.
Innanzitutto si dovrebbe distinguere tra intervento contro Isis e quello per il superamento/ stabilizzazione delle crisi. Sono due cose diverse. Non possiamo appellarci alla complessità (vera) dello scenario di conflitti in corso, per motivare attese, ritardi, incertezze, equilibrismi. In un corpo variamente e profondamente ferito è comparsa una forma tumorale. Va estirpata. Il resto delle cure si vedranno in seguito.
Secondo aspetto: è bene aiutare le varie componenti medio-orientali (anche tra loro ostili) a rafforzare la loro presa di coscienza anti-Isis; supportarle nello sforzo militare; facilitarne le intese; “pagarne” la mobilitazione, piuttosto che anticiparle e sostituirle. Da questo sforzo autoctono possono determinarsi equilibri nuovi e si può costruire un modello di comportamento utile contro il jahidismo integralista, che solo i musulmani possono costruire. Molti segnali, infatti, indicano come l’Occidente sia in crisi di credibilità in quest’area. Dai “due pesi e due misure” nel conflitto israelo-palestinese, all’imbarazzato far finta di niente di fronte al colpo di stato militare in Egitto, passando per le confuse strategie in Siria e Iraq e le ambiguità con l’Isis di cui si è detto.
In Libia, dove il fenomeno delle adesioni al Califfato è ancora limitato è possibile pensare ad azioni mirate, forse brevi, ma molto decise, che non necessariamente incidano sugli equilibri o le sorti dei contendenti principali, anzi provando a trovare con essi un terreno comune di “lavoro” per estirpare il cancro (ed evitando deleghe in bianco al nuovo Faraone Al Sisi). Chissà che questo non possa essere un passo di intesa tra loro.

In Siria ed in Iraq l’azione non può che essere più complessa e lunga, per le dimensioni della metastasi, ma altrettanto a breve e decisa. La disponibilità di risorse e mezzi che vanno messi a disposizione dai Paesi occidentali per l’Operazione, debbono essere proporzionate al recupero di credibilità che essi debbono avere sul teatro Medio-Orientale.




Direttore Generale Sudgestaid SCARL