giovedì 16 ottobre 2014

Iraq, Siria, Mediterraneo: tra guerre d’interesse e pace tra le religioni - Una lettura dei conflitti in corso per aiutare un futuro comune (verso l’organizzazione di un Workshop con Link Campus University)


Uno scenario drammatico e le cause principali che lo determinano
La guerra civile in Siria, il conflitto in Iraq, la nascita dello «Stato Islamico», il caos libico, la normalizzazione autoritaria delle «Primavere arabe»…sono i segni di quella «guerra mondiale a pezzi» in corso proprio qui, accanto a casa nostra e già segnata da migliaia di morti.Le cause che la alimentano sono numerose: lotte di potere interno, strategie energetiche internazionali, voglia di nuovo protagonismo da parte di Potenze regionali, pericolose partite a scacchi delle Potenze planetarie…Lo scenario complesso e drammatico  che ne emerge chiama a sfide nuove tutto l’Occidente e quello europeo e mediterraneo, in particolare. Obbliga ad una responsabilità di attenzione ed azione tutti noi, perché nessuno potrà e dovrà dire: «non sapevo»…
Guerre settarie e di religione? Scontro di civiltà?
Molti le chiamano guerre settarie e di religione, ma gruppi con identità nazionali e religiose diverse si scontrano non perché sciiti o sunniti, mussulmani o cristiani, che per secoli, negli stessi luoghi hanno convissuto pacificamente.Le differenze di credo, le appartenenze confessionali che dividono i contendenti sono, semmai sempre più usate strumentalmente per mobilitare le opinioni pubbliche e creare barriere che si vorrebbero insuperabili.Lo scontro non è tra civiltà, ma dentro le stesse civiltà, trasversalmente tra loro. I Jahidisti dell’ISIS non perseguitano tanto i Cristiani quanto i loro stessi correligionari, Sunniti compresi, in una ottica di conquista di spazi di potere e di territorio «arabo».

Le religioni non sono una minaccia, ma una opportunità!
In questo scenario le Religioni sono semmai una grande risorsa di dialogo. Hanno alla loro radice un messaggio comune di tolleranza, quello che i promotori di guerra si sforzano di occultare.
Le Religioni, insieme a tutti gli uomini di buona volontà, possono ritessere le fila di un discorso comune; aiutare la rinascita di un fondamento condiviso di valori da salvaguardare nell’autonomia delle identità.

La vera sfida è creare sviluppo
Insieme al ruolo delle Religioni va valorizzato quello degli interessi positivi, che puntano alla stabilità dell’area per creare sviluppo.Nel Mediterraneo e nel vicino Oriente convivono, a pochi km di distanza, la 14° nazione nel Ranking ONU degli indici di sviluppo umano con la 114°. A meno di due ore di volo, c’è chi guadagna in media 34.000 dollari l’anno e chi 4.500.
Queste drammatiche differenze sono alla base delle migrazioni inarrestabili, delle «primavere» che non tarderanno a riproporsi, dei conflitti sociali più drammatici.
Un nuovo processo di sviluppo dell’area è il cuore degli interessi politici ed economici dell’Europa. Deve essere al centro del sogno di futuro dell’Italia



 Direttore Generale Sudgestaid

Maurizio Zandri 

mercoledì 8 ottobre 2014

45 METRI!

Andate su Google Map e cercate una città, Ayn Al Arab, che in curdo si chiama Kobane. Zoomate la sua periferia nord e scoprirete che le ultime case hanno, appena sopra, una scritta: Turkiye-Syria… Poi andate in basso sullo schermo a prendere la barra delle distanze. Riportatela sopra. Non avete sbagliato: 45 metri. 45 metri dividono Kobane dal confine turco. 45 metri! Se fossero 45 chilometri (o 450!) dovremmo già sprofondare nella vergogna più imbarazzante per l’immobilismo turco e occidentale che sta permettendo la morte di centinaia di curdi che qui sono accerchiati dall’IS, i jahidisti del sedicente Stato Islamico. Ma 45 metri…45 metri sono una croce indelebile, definitiva su frasi come “lotta al terrorismo”, “difesa della vita umana”, “coalizione democratica”. 45 metri segneranno da oggi la profondità della fossa comune delle nostre coscienze di bravi occidentali. Saranno un simbolo, quello dell’ignavia.
“45 metri” sarà il grido che travolgerà la credibilità delle nostre politiche, le nostre ambasciate, anche i nostri cooperanti, tra le genti curde, siriane, irachene, del mondo medio-orientale, nei prossimi anni.
Né potrà salvarci accusare la Turchia e i suoi cinici, crudeli giochi diplomatici. Non potremo tentare di guardare oltre. Ci sarà sempre qualcuno pronto a ricordarci che la Turchia è un Paese della NATO. E a chiederci della fine che ha fatto la micidiale efficienza dei caccia americani…e, qualcuno più cattivo, a chiederci “chi ha armato l’IS?”….
Ricordare i “45 metri” sarà come parlare di Ruanda ai Francesi o di Bosnia agli Olandesi.
C’è una sola speranza di salvare il salvabile: che qualcosa accada nelle prossime ore. Ma poi che diremo alle tante famiglie di chi è già morto?


Maurizio Zandri

Direttore Generale SudgestAid 

martedì 1 luglio 2014

Iraq: tra improbabili califfati e difficile federalismo


La crisi irachena si avvita tra inverosimili califfati annunciati, bracci di ferro diplomatici  e morti veri.
Gli integralisti islamici dell’ISIS perdono lettere della sigla con la velocità con cui conquistano chilometri di deserto. Sembrano divorati da una esigenza di immagine: mettere una bandiera dove tra poco (lo sanno anche loro?) gli verrà abbrustolita da qualche bomba-laser. E’ come fosse una specie di corsa, tra gli emuli di Bin Laden, a chi per primo si fa Califfo. Non importa per quanto tempo. Capiteranno altre occasioni. Del resto i soldi non mancano, almeno fino a quando l’Arabia Saudita vedrà gli Iraniani e la loro influenza in Iraq, Libano e Siria, come un malato di emorroidi il peperoncino.
Gli Stati Uniti sembrano disposti ai soliti due schiaffi per fermare il neo-califfato (droni e bombardamenti più o meno intelligenti) ma, ritardando la decisione, ricattano il premier Sciita Al Maliki: “prima decidi di fare quello che ti diciamo…” (del resto lui ha veramente esagerato con una politica settaria e non è amatissimo neanche da una parte degli Sciiti). Soprattutto, gli americani, prendono tempo per alzare il tiro con  l’Iran, alleato di Maliki: “noi blocchiamo il casino; non interrompiamo, per ora, la tua influenza a Baghdad. Ma, suvvia, rivediamo il dossier nucleare!…”. E i Russi, alla ricerca spasmodica di occasioni per ricomporre un po’ della vecchia grandeur sovietica, si infiltrano regalando Sukhoi alle malmesse forze armate irachene.
Intanto, come si diceva, qualche migliaio di iracheni, alla fine del giro di giostra, ci avrà lasciato le penne.
La loro maledizione è che sono incredibilmente ricchi,  tanto deboli (e con vicini voraci) e di una stupidità politico-strategica disarmante. Tre comunità, tre culture,  in fin dei conti non così lontane, siedono su un forziere di tesori che fa gola a mezzo mondo (era previsto che l’Iraq, in dieci anni, divenisse il primo produttore mondiale di petrolio..). Invece di gestirlo al meglio, concordando come tenerselo e aumentarlo, hanno iniziato ad ascoltare i suggerimenti di “amici” interessati e hanno preso a  pestarsi i piedi… a quel che sembra, anche molto “per conto terzi”.

La tentazione di trovare una via d’uscita dalla crisi con una divisione in tre del Paese, che implicitamente i curdi sembrano suggerire, è forte. Il problema è che il federalismo che funziona è una forma di condivisione e unità non di separazione. In queste condizioni, senza obbiettivi comuni, pezzi di identità ed interessi condivisi, si andrebbe verso tre “Staterelli” belligeranti, ognuno, per di più, con protettori in conflitto tra loro. Il federalismo è una buona soluzione, ma è un percorso comune, o lo si fa dialogando o è meglio prepararsi ad una fase “post-jugoslava”. Con l’aggravante che qui c’è anche un bel po’ di quella benzina necessaria a noi occidentali per fare andare le nostre macchine e goderci il week-end.
Direttore Generale Sudgestaid SCARL

La polarizzazione etnica in Iraq e l’avanzata delle forze dell’ISIL


La creazione del governo iracheno potrebbe essere l’unica soluzione all’avanzata delle forze estremiste dell’ISIL (Stato Islamico dell’Iraq e del Levante) nel nord del paese.  Da parte americana e di altri paesi esteri, tra cui il Regno Unito, si chiede a Maliki di fare un governo di emergenza che preveda una maggiore autorità per i sunniti e per i curdi, ma Maliki,  il cui blocco ha vinto le elezioni dello scorso aprile,  ha pubblicamente dichiarato che questo sarebbe un attentato alla costituzione e si è impegnato a formare un nuovo governo entro il 1 luglio.  
La responsabilità della classe politica irachena nell’insorgenza di questa nuova crisi e, in primis, del governo in carica, è grande: essi hanno fallito nel raggiungere una formula costituzionale adatta a superare i contrasti riguardanti la distribuzione dei poteri e delle risorse, il federalismo e le relazioni stato-regioni oltre che il sentimento dominante di alienamento da parte dei sunniti e le relazioni tra gli organi del potere esecutivo e legislativo.
Dopo la caduta di Saddam Hussein la minoranza sunnita del paese è stata messa in disparte dal governo e questo ha portato alla nascita ed al progressivo intensificarsi di una serie di proteste contro quella che viene definita una persecuzione settaria.
Da parte sunnita, le proteste si sono intensificate già dalla fine del 2012 in seguito all’arresto per ragioni politiche di 10 guardie del corpo del ministro delle finanze iracheno Rafia al-Issawi, preminente personaggio politico sunnita di Anbar.  Qualche mese prima il vice presidente Tariq al-Hashemi era stato costretto a fuggire in Turchia per scampare ad una condanna a morte per l’accusa di aver avuto un ruolo in una serie di 150 attentati ed attacchi avvenuti fra il 2005 ed il 2011.
Durante il 2013 la protesta dei sunniti è stata intensa, contro ingiustizia, marginalizzazione, politicizzazione del sistema giudiziario e mancanza di rispetto della costituzione e, soprattutto, contro il primo ministro al-Maliki accusato di creare fratture settarie tra sunniti e sciiti e di essere al soldo dell’Iran.
Di questa protesta si sono avvantaggiati il gruppo terroristico affiliato ad Al Qaida, chiamato “Stato Islamico Iracheno” (ISI), le Brigate Rivoluzionarie del 1929 e l’Esercito Naqshbandi, i quali hanno operato perché il diffondersi e l’intensificarsi del dissenso sunnita si trasformasse in insorgenza. Come risultato nel 2013 circa 10.000 persone, soprattutto civili, erano stati uccisi in tutto il paese.
Nel 2007, gli americani avevano capito che solo l’alleanza con i sunniti avrebbe permesso loro di avviare il paese verso la stabilizzazione, ma la lezione è stata dimenticata dal governo iracheno.
Più di 1000 persone sono già state uccise ed altre 1000 ferite da quando ISIL ha iniziato, due settimane fa, la sua avanzata sul suolo iracheno. Molte sono state le esecuzioni sommarie di soldati dell’Esercito iracheno e delle forze di polizia, ma altrettante sono le vittime civili. Inoltre ci sono già migliaia di famiglie che stanno lasciando il nord del paese per sfuggire all’avanzata estremista. Oggi le notizie riportano di centinaia di abitanti sciiti e turkmeni dei villaggi  vicino a Mosul, che è stata presa dai militanti di ISIL all’inizio di giugno, stanno cercando di entrare nelle aree controllate dai curdi.
Dal punto di vista militare gli Stati Uniti, che per ora hanno escluso un intervento di terra,  hanno cominciato ad inviare i primi di 300 consiglieri che dovranno supportare l’esercito iracheno sia in fase di raccolta dell’intelligence e valutazione dell’insorgenza sia nella creazione di un centro operativo. Essi dovranno valutare la coesione delle forze di sicurezza irachene, stimare la minaccia e fare raccomandazioni su come ottimizzare la risposta. Ci si aspetta che i risultati di questa attività possano arrivare attraverso la catena di comando entro due o tre settimane. Alcune missioni di ricognizione aerea statunitensi stanno sorvolando ogni giorno le aree più critiche e stanno fornendo informazioni all’esercito iracheno. Da queste rivelazioni è chiaro che i combattenti di ISIL continuano a solidificare le loro posizioni man mano che avanzano, che non hanno alcun problema nell’attraversare il confine tra Siria ed Iraq e che continuano a premere verso il centro ed il sud dell’Iraq costituendo un pericolo reale per Baghdad.
E’ notizia recente che i militanti di ISIS abbiano catturato la più grande raffineria irachena a Beji, a nord di Tikrit.
Un portavoce di ISIS ha dichiarato ieri, 29 giugno, ad Al Jazira che è stato creato una califfato (obiettivo strategico di ISIS) che va da Aleppo in Siria fino alla provincia di Diyala in Iraq e che il capo di ISIS, Abu Bakr al-Baghdadi, è il nuovo califfo ed il leader di tutti i musulmani nel mondo.
Intanto, nel perseguirle il suo obiettivo, ISIS sta probabilmente facendo convergere gli obiettivi strategici, prima divergenti, del regime di Bashar al Assad, dell’Iran, degli Stati Uniti e dell’Iraq in una cooperazione contro una minaccia alla sicurezza regionale, anche se il rifiuto degli USA di avviare fin da subito iniziative militari sta lasciando spazio agli aiuti militari di altri paesi, come la Russia, che ha consegnato all’Iraq 10 jet da combattimento Sukhoi (Su-25)
D’altra parte, l’avanzata jihadista sta dando una nuova direzione anche ai rapporti tra Kurdistan ed Iraq. All’avanzare dei combattenti verso Kirkuk, città petrolifera da tempo contesa dal Kurdistan all’Iraq, i Peshmerga curdi sono entrati nella città e ne hanno assunto il controllo per difenderla: per il Primo Ministro del Governo Regionale del Kurdistan  Barzani, quella offerta da ISIS è un’occasione speciale per dimostrare la propria capacità di difendere gli interesse delle aree rivendicate dal paese e per utilizzare la capacità militare dei Peshmerga come una leva per ottenere dal Governo Iracheno indipendenza nella vendita del gas prodotto dalle regione.
E’ ancora presto per capire cosa succederà ma questo è il momento della ponderazione. Un intervento militare dell’Iran rischierebbe di esacerbare la crisi perché sarebbe visto come un’occupazione persiana/sciita in un territorio arabo sunnita; un intervento di terra degli USA è stato escluso da Obama e, comunque, anche un intervento aereo mirato o l’uso di forze speciali non avrebbero alcuna utilità senza un ruolo effettivo dell’esercito e della polizia iracheni e senza un governo capace di fare le riforme necessarie.

Da più parti si comincia a riparlare di federalismo e di tre regioni come unica soluzione per tenere insieme lo stato Iracheno.  


Programme Manager SudgestAid S.C.a.R.L 
ed esperta in Governance, Decentralizzazione
 e Relazioni Internazionali